La zona di Bocoueil fu – secondo una tradizione leggendaria – distrutta dal Cielo per punirne la popolazione, dedita a festini e disattenta alle opere di carità. Proprio durante una festa, sulla gente tutta raccolta in un luogo, sarebbe crollata la cima della montagna, seppellendo cose e persone. Alla desolazione sarebbe sopravvissuta una campana, datata al XIV secolo, conservata all’interno dell’attuale chiesa parrocchiale.
Oggi sappiamo che, intorno all’XI secolo, in un periodo di inclemenze climatiche, l’area di Bocueil fu travolta dall’esondazione del torrente omonimo, che scende dal vallone di Visey. Coperta di fango e pietrame, fu successivamente parzialmente dissodata e adibita prevalentemente – com’è ancora oggi – alla coltivazione della vite.
Il conte Giacomo di Challant ospitò una volta del suo castello di Issogne il gigante Jean Lestournel, campione di lotta transalpino che non temeva rivali. Per intrattenere la popolazione, chiese a Poguel de Grinda, contadino forzuto ma pacifico di Châtillon, di ingaggiare con lui una lotta. Alla fine questi accettò e a Issogne giunsero dame e cavalieri e tanti popolani, per assistere al duello, che sembrava già segnato dalla fama del francese. Lo scontro iniziò e Poguel fu più volte sul punto di soccombere, quando, con un ultimo sforzo, riuscì ad alzare l’avversario fino a spezzargli la schiena. L’evento fece talmente clamore che Poguel divenne un vero eroe locale e la scena della sua vittoria fu fatta dipingere nel punto centrale della parete principale del cortile del castello.
Poguel de Grinda
Il conte Renato di Challant aveva trovato per la figlia primogenita un partito di prim’ordine nel principe trentino Giovanni Federico Madruzzo. Filiberta, innamorata di uno scudiero del padre, accettò le nozze ma, la sera prima che si celebrassero, fuggì con l’amato verso Ferrara e Venezia.
Il matrimonio avvenne comunque, tra il Madruzzo e la sorella di Filiberta, Isabella.
Secondo una leggenda popolare, il padre fece ricercare la figlia ribelle e, trovatola, ordinò che fosse rinchiusa in una stanza del castello e lasciata morire di fame, cosa che avvenne al diciasettesimo giorno di prigionia.
Nella realtà sappiamo che, tornata a Issogne dopo la morte del compagno, Filiberta (o Iolanda, come era anche chiamata) fu perdonata dal conte Renato, che la diede in sposa a un conte di Novara e le assegnò, quale residenza, il lontano castello di Boffremont, in Lorena.
Attirata dall’avvenenza e dalle ricchezze del conte Renato di Challant, Biancamaria di Scapardone, originaria di Casale, ne ottenne infine la mano. Arrivata a Issogne per prendere possesso del castello, la contessa, spesso sola per gli innumerevoli impegni diplomatici del marito, conobbe presto la noia e decise di fuggire verso la vivace corte di Milano, che aveva frequentato fino a poco tempo prima. Qui riprese a essere corteggiata da tutti, finché non armò la mano di un giovane innamorato contro un suo nobile amante da poco abbandonato. Come mandante dell’assassinio, fu condannata a morte e decapitata nel castello di Milano il 20 ottobre 1526.
Fin qui la storia, raccontata anche in una novella di Matteo Bandello.
Una leggenda racconta che, per lunghi anni, il fantasma della contessa fu visto aggirarsi, avvolto in un mantello bianco, nel castello di Issogne, col capo mozzato tenuto sotto il braccio.
Nello scavare alla ricerca d’acqua in un periodo di siccità, un abitante si mise a scavare nei pressi di Bosset e, a una certa profondità, venne alla luce una statua della Vergine che, rimossa, lasciò scaturire un’abbondantissima sorgente. Da quel momento la popolazione di Issogne non fu mai più soggetta a scarsità idrica e ancor oggi la maggiore quantità di acqua potabile proviene da quella stessa fonte.
Sul luogo della sorgente fu poi costruito un oratorio.
Un giorno, uno sconosciuto si presentò, sul tardi, alla porta di un uomo che continuava a filare, nonostante la consuetudine imponesse di smettere di lavorare alle nove di sera. A un tratto il fuso cadde dalle mani del contadino che, nel recuperarlo da terra, si accorse della forma di zoccoli caprini dei piedi del visitatore. Subito capì che si trattava del diavolo e fuggì nel fienile, sapendo che la presenza di paglia tra lui e il diavolo avrebbe impedito a quest’ultimo di fargli del male. Fu così che riuscì a ritardare il contatto col diavolo, ponendo davanti a lui via via bracciate di fieno, finché, al rintocco delle campane, il maligno fuggì con la schiera di amici che nel frattempo erano venuti in suo aiuto. Il contadino capì da quel momento che le tradizioni andavano sempre rispettate.
C’era una volta nella località Pianfey, a monte dell’abitato di Issogne, un uomo grosso di nome Battista, che riforniva di legna il castello. Un giorno, Battista chiese al conte di dargli da mangiare. Il nobile gli diede prima del pollo, poi due mucche, fino a terminare le riserve di cibo del castello. L’uomo non era mai sazio e girava per le case del paese a requisire ogni cosa che si potesse mangiare, fino a quando non venne catturato dagli abitanti e impiccato.
Un ragazzo di Issogne partì una sera per far visita a una giovane di Echallod. Si trovava al ponte di Montillon quando scorse la ragazza che gli veniva incontro. Disorientato per il permesso che la madre aveva concesso alla figlia di uscire, sentendo strani i passi della fidanzata, abbassò lo sguardo e vide, al posto dei piedi, gli zoccoli di una capra. La sua paura fu grande, soprattutto quando vide l’essere dissolversi tra le fiamme. Proseguì il cammino fino alla stalla in cui viveva la ragazza, alla quale chiese come mai prima l’avesse raggiunto a metà strada. Non essendosi mai mossa dalla stalla, Marcelline – questo il suo nome – raccontò tutto alla madre, che capì subito come si fosse trattato di un evento diabolico. Tutta la notte i tre recitarono la corona e, al mattino, madre e figlia accompagnarono il ragazzo fino a Issogne, notando nei pressi dell’oratorio Polesa una traccia di bruciatura per terra, a testimonianza della veridicità del racconto.
L’abbé Aimé Gorret, nel suo libretto Victor-Emmanuel sur les Alpes (Torino 1868) racconta il seguente aneddoto: A Issogne se trouvait un vaillant chasseur du nom de Boretta. La concession des chasses de Champorcher à Victor-Emmanuel le contrariait fort. Plusieurs contraventions lui furent faites, mais le Roi lui accorda toujours sa grâce, et l’employait fort volontiers lors de ses chasses.
Un jour Victor-Emmanuel, le général d’Angrogna et Boretta, partent de Dondenna pour aller chasser sur les montagnes de Fénis. Une tempête les surprend, les torrents grossissent, et l’on se trouve à devoir en traverser un assez dangereux. Boretta retrousse son pantalon, charge le Roi sur son dos, et s’engage dans l’eau.
Vers le milieu du torrent, lorsque l’eau dépassait déjà le genou de Boretta, le Roi remua tant soit peu. La position était critique, le fardeau n’était pas insignifiant et Boretta n’avait pas suivi un cours régulier de politesse. Il décroche donc de son patois un « tente su bourich ! » (tiens-toi donc, âne) et le Roi lui répond : « ma salo nen chiel che l’aso a l’è coul ca porta ? » (mais ne savez-vous pas que l’âne est celui qui porte ?).
Les contretemps de cette journée furent si nombreux que nos trois chasseurs ne purent revenir à Dondenna, et s’arrêtèrent au dernier chalet de Fénis où ils mangèrent pour tout repas une bonne polente.